lunedì 17 marzo 2014

#16.io

Appena sveglio, mi scopro a pensare che la mia vita è stato un continuo rimandare. Non una dissipazione di energie, ma l'attesa che potessero essere sfruttate meglio. Sono, siamo, certi che non ci possa accadere nulla vivendo: la vita stessa è il permanere di tale speranza, ma non siamo infiniti e talvolta ci veniamo a mancare. Oppure ci accorgiamo che facciamo parte di questo permanere per ripetere qualche gesto, per convincere altri che quei gesti siano importanti e immaginare la iterazione dei gesti, delle parole, dei pensieri o di un certo modo di porsi come essenza dell'esistere: se riesco a comunicare le cose in cui ho creduto, altri crederanno le stesse cose e permarrà l'essenza di chi ho voluto essere, oppure ho creduto di essere. Posso pensare queste cose perché sono qua, e le penso: cosa sarà di quello che ho pensato quando non ci sarò più? Nella domanda sta la disseminazione di indizi: i libri che amo, un certo modo di raccontare storie, i film che raccolgo, le parole che distribuisco, i ricordi che recupero, il tentativo di mettere in ordine certe cose. E poi mi ritrovo tra le mani una valigia non mia, un ulteriore ostacolo di cui devo dar conto, no, di cui voglio dar conto. Mi immedesimo, e certe volte ho la netta sensazione di aderire talmente tanto a Gildo Priblic da pensare di essere stato io, lui.

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