venerdì 21 marzo 2014

#17.frattura

Priblic mi suggerisce di scrivere, oppure di recuperare l'essere. La sua valigia è un mondo, in parte perduto in parte ritrovato. Anche la polvere ha un suo peso, dipende dal contesto, dalle relazioni, dal confronto e dallo scontro tre le particelle che la compongono. Niente è caso, niente va lasciato al caso. Pagine scritte fitte fitte, altre lasciate in bianco a far decantare il silenzio delle occasioni perdute, pagine con segni indecifrabili ed elenchi di parole, di cui non comprendo il nesso, disegni di mondo, foglie ex-libris. Non cosa dire altro. Riprenderò a trascrivere quello che trovo, qualcun altro avrà il compito di rimettere ordine tra le tessere del puzzle per intravedere un disegno.

lunedì 17 marzo 2014

#16.io

Appena sveglio, mi scopro a pensare che la mia vita è stato un continuo rimandare. Non una dissipazione di energie, ma l'attesa che potessero essere sfruttate meglio. Sono, siamo, certi che non ci possa accadere nulla vivendo: la vita stessa è il permanere di tale speranza, ma non siamo infiniti e talvolta ci veniamo a mancare. Oppure ci accorgiamo che facciamo parte di questo permanere per ripetere qualche gesto, per convincere altri che quei gesti siano importanti e immaginare la iterazione dei gesti, delle parole, dei pensieri o di un certo modo di porsi come essenza dell'esistere: se riesco a comunicare le cose in cui ho creduto, altri crederanno le stesse cose e permarrà l'essenza di chi ho voluto essere, oppure ho creduto di essere. Posso pensare queste cose perché sono qua, e le penso: cosa sarà di quello che ho pensato quando non ci sarò più? Nella domanda sta la disseminazione di indizi: i libri che amo, un certo modo di raccontare storie, i film che raccolgo, le parole che distribuisco, i ricordi che recupero, il tentativo di mettere in ordine certe cose. E poi mi ritrovo tra le mani una valigia non mia, un ulteriore ostacolo di cui devo dar conto, no, di cui voglio dar conto. Mi immedesimo, e certe volte ho la netta sensazione di aderire talmente tanto a Gildo Priblic da pensare di essere stato io, lui.

martedì 11 marzo 2014

#15.zio


Shoe shiner, shoe shiner, shoe shiner, 
Come back to my Chinatown 
I sing for you, shoe shiner 
I show a memory´s clown 
I shoe a memory´s clown 
Shoe shiner, shoe shiner
Come back to my Chinatown 
I sing for you, shoe shiner
Chinatown, Chinatown

domenica 9 marzo 2014

#14.fiato

"La morte di Tito è corrisposta ad una esplosione dei nazionalismi, e dei peggiori. Io sono nato jugoslavo, dopotutto, Tito presidente l'ho appreso dai primi anni di vita, sono anche stato una delle staffette del 25 maggio. Un'esperienza non dimenticata, era solo un frammento di corsa in fondo ma ci si sentiva intimamente legati, e pezzi di una storia. Bah. Non ho avuto mai la sensazione che il culto della personalità pesasse veramente sulla mia vita, ero un ragazzo. Però dopo il 5 aprile del 92, quando Suada venne uccisa a 24 anni sul ponte Vrbanj, avemmo la netta sensazione che tutto si sarebbe definitivamente sbriciolato da lì a poco, e nella maniera peggiore. Il mio praticantato di psicologia a Sarajevo era iniziato l'anno prima, mi trovavo là per quello. Però c'ero già stato nell'84, con mia madre, per assistere allo slalom gigante delle Olimpiadi in cui Franko vinse l'argento, l'unica medaglia jugoslava in patria. Il compagno Broz era morto, ma la nazione ancora reggeva. In occasione del 25 maggio del 92 decidemmo tutti assieme di non morire per quella guerra che non ci riguardava, anche se eravamo in un certo modo prigionieri della nostra nazionalità. L'idea ce la diede l'immagine televisiva della premiazione olimpica, il fiato che usciva copioso dalla bocca del nostro sciatore: finché un alito di vita ti rimane ci sei, bisognava raccogliere quel fiato. Così riempimmo le nostre case di palloncini colorati col nostro fiato, e sul palloncino il nostro nome. Soffiare, bisognava soffiare e ricordare di rimanere vivi. Ogni anno un palloncino diverso, finché le case non ne potevano più: case piene di vita perché colorate, e al tempo stesso dense di presenze/assenze in ogni angolo. Era una maniera di credere di potercela fare."

sabato 8 marzo 2014

#13.sogni

"Dove mi prefiggo di arrivare? Dove mi fermerò, oppure quando? Vado a tentoni, procedo nel buio in luoghi che ignoro, non guardo mai l'orologio. Non è andata sempre così, ora però ho smarrito il posto che per anni ho occupato. Già arrivare ad Izola ha cambiato il mio modo di sentire il mondo: da una parte si profilava la penisola italiana, primo probabile approdo, e dall'altra si stavano sfilacciando i legami con la patria disfatta e il tanfo di morte che anche le parole emanavano. L'ippocampo encefalico sovrintende le nostre memorie di lunga durata, non lo posso estirpare per dimenticare le cose fatte e quelle viste, non lo posso nemmeno resettare e ho il sospetto che il cervello rimetta in circolo, nei sogni, porzioni di memoria diverse, per qualità del ricordo e per posizione nel tempo e nello spazio: sogniamo esperienze vissute ma rimescolate in maniera randomica, al punto che i sogni si pongono come dejà vu di nuova formulazione. Due notti fa ho sognato mio padre che mi parlava, parlava a me, a quello che sono oggi: l'ippocampo ha mescolato tempi diversi nello stesso luogo. Certo, lo so, sono cose che ho studiato a psicologia, ma quando riaffiorano si pongono sempre come nuovi eventi. Le memorie realmente vissute rimangono incise sul nostro disco rigido, mentre i sogni che le mescolano sono volatili e labili e non si memorizzano con tanta facilità. Solo quando tentiamo di scriverli, ma anche in tal caso, scrivendo, tendono a volatilizzarsi. Lo rammenta Prospero: siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni, e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita."

venerdì 7 marzo 2014

#12.tempo

"Non che ci sia tutto questo tempo, no. L'urgenza di scrivere sovrasta il tempo che ho per riflettere. C'è stato un tempo in cui non ho potuto far altro, e le parole nei diari perduti erano di gravi silenzi e sibillini fragori. Non tutte le città sono state Sarajevo, come jugoslavo mi sono sentito tradito, occupante e occupato, nei luoghi in cui sono cresciuto. Il posto dove mi trovo adesso è quasi irreale, sembra tutto sospeso: scorre la vita, dovrebbe essere normale eppure non c'è la verità della storia, né la vitalità delle scelte. Vero, è solo un'approdo e non è detto che io mi fermi qui per sempre. L'ho scelto, o mi è stato imposto (ancora non mi è chiaro), per cercare una serenità mentale: lavorare, avere relazioni sociali, abitare, concedermi svaghi, passeggiare, leggere senza l'assillo di non conoscere cosa ne sarà di me, domani. Domani morirò, questo mi è chiaro. Sono sopravvissuto alla mia identità territoriale, non me ne faccio un vanto ma nemmeno è un cruccio: penso al momento in cui Defoe pensò di far incontrare Robinson e Friday, l'altro da sé, la propria immagine riflessa in un altro mondo (non era il primo alter ego per Defoe, sarebbe stato l'ultimo). Mi sento così, convivo con una immagine di me che penso esista e invece è solo un'alterazione letteraria: mi invento per dirmi che sto qui. Stevenson docet. Potrei fargli compiere nefandezze, non è detto che verrebbe a dirmele."

mercoledì 5 marzo 2014

#10.inizio

"Inizio daccapo. Mi hanno requisito i diari personali, non so perché. La prima pagina di questo ennesimo diario soffre la mancanza di pagine scritte giorno per giorno, quattro anni dedicati a raccontare la follia etnica e la mia, la nostra, incredulità. Più quei taccuini mi chiamavano, più il mio corpo si allontanava mentre l'anima era lì ad abbracciarli. Ora sono in viaggio, quasi apolide. Ho scelto l'esilio volontario come estrema resistenza alla disfatta, politicamente non esisto più (proverò a raccontarlo, ancora, a me stesso e a chi avrà misericordia di questo ulteriore diario, anche se niente potrà essere riscritto, non come prima) ma sono ancora un uomo, scrivo, esisto. La hall di questo aeroporto è grande almeno mille volte le case che ho condiviso coi miei amici a Belgrado, a Split, a Sarajevo, anche qui le parole fluiscono, dondolano, si muovono, non come le nostre che ci siamo interrogati sul presente e il futuro, su Tudjman e Milosevic, sulla politica e l'informazione, sull'equilibrio tra verità e menzogna. Le nostre parole, ce le siamo scagliate addosso come frecce avvelenate: io, persino, contro Alija, siamo cresciuti assieme, non dimenticherò mai il nostro addio. Sono un granello di sabbia portato dal vento, e la mia storia quasi non mi appartiene. Ma ho figli, lontani, e devo scrivere per dimostrare, almeno, che ho calpestato il suolo del loro stesso pianeta, mi sono bagnato nei loro mari e ho respirato l'aria delle loro città. I miei libri non saranno i loro e la mia passione per il cinema non incontrerà i loro gusti. Ma sono paziente. Solo dentro questo inutile frastuono di merci e passeggeri comprendo l'irrilevanza della tragedia: la guerra fratricida della mia terra si diluisce in litri d'inchiostro rosso sangue ma qui annerisce fino alla sua scomparsa; gli europei non capiscono quello che trasmettono i loro giornali televisivi perché tra le tiepide situazioni politiche interne alla nazione e la nascita del figlio di una cantante hanno inserito, col viso commiserato dell'anchorman, un Mladic sorridente accanto ad un generale dell'Unprofor. L'anchorman, mentre le mie parole diventano lettere, sorride compiaciuto e da dietro la videocamera qualcuno gli suggerisce che ha ancora trenta secondi; lui, affabilmente, ne concede venti alle previsioni del tempo. In venti secondi un cecchino poteva far fuori cinque persone, non sentivi lo sparo anche se sotto il sole le città erano avvolte da una cappa di silenzio, la ragazza delle previsioni dice che la cappa si diraderà e tornerà il sereno. Non ha le informazioni giuste. A quanti secondi siamo? Tre, due, uno: sigla."
(tratto da Gildo Priblic, Diario del non ritorno)

giovedì 27 febbraio 2014

#09.traditore

"Quanto viene pubblicato in prima pagina dai giornali non mi riguarda. Situazione internazionale, politica, strategia, finanze, tutto mi pare così irreale, incomprensibile, inattingibile per le mie forze. Sì, magari c'è stato un tempo in cui ho tentato di distinguere: scegliere una parte invece di un'altra, tenere per la verità. Ma è accaduto un secolo fa, un'eternità addirittura, quando ogni illusione fioriva in me. E poi? Perché ho cambiato idea? Più esattamente perché ho rinunciato ad avere un'idea qualsiasi?
Per orizzontarsi bene nella nostra epoca, dice chi se ne intende, occorre conoscere l'economia e la storia. Insomma, ci vogliono diligenza, memoria, tenacia, inclinazione allo studio. E io sono sempre stato un cattivo scolaro: distratto, approssimativo, pigro, volubile. Una fatica fisica non mi ha mai fatto paura, una prova intellettuale mi ha sempre sgomentato. Solo seguendo un metodo sicuro, dice chi se ne intende, si può arrivare a scoprire la verità, a penetrarla, a comprenderla. E' vero, lo ammette anche l'intenditore, parti di verità o situazioni di fatto che portano ad avvicinarvisi posso anche essere scoperte nel modo più semplice, casuale, senza un metodo sicuro e persino senza una ricerca, soltanto vivendo, ma da tali frammenti, da tali lampi di lucidità cosa può trarre il negligente, l'ottuso egoista? Nulla che possa servire da insegnamento, da monito, nulla che possa essere veramente utile agli uomini. Un ragionamento giustissimo, non mi viene in mente la minima obiezione. Essendo distratto, approssimativo, pigro, volubile, essendo soprattutto egoista ma non presuntuoso, ho lasciato perdere una volta per sempre ogni ricerca della verità. Mi accontento dei particolari: bastano e avanzano. Ogni illusione di un tempo ha fatto presto a sfiorire come una pianta dimenticata su un davanzale durante la siccità." Questo è l'incipit del racconto "Il traditore" che Oreste Del Buono, classe 1923, ha scritto a 43 anni e che Priblic aveva riposto tra le sue cose, nella valigia.

mercoledì 26 febbraio 2014

#08.elenco

La valigia è ancora chiusa, sotto il letto. Mi sono coricato, sopra il letto. Guardo il soffitto, e penso a Gildo Priblic: sparito o morto? Che diritto ho di riportare alla luce quei reperti, ricostruire un disegno a partire da tracce sconnesse? Da una parte la ritrosia, dall'altra la curiosità. Penso che le cose trovate siano una specie di messaggio, riposte nella valigia-bottiglia: dicono "raccontami, se ci riesci". Forse la valigia stessa è un messaggio, riposto nel vuoto di un luogo qualsiasi, in attesa di essere rimessa in circolo dalla casualità. La moneta di scambio è la narrazione forzata. Le macchie d'umidità sul soffitto sono una specie di quipu, una mappa nel candore della calce. Questo cos'è? Un altro pezzo del puzzle, non riposto: "Racconti italiani 1966. Selezione dal Reader's Digest, Milano", sulla copertina cartonata un disegno di Emilio Greco del novembre 1962.
Indice:
Gaby la nana di Giovanni Arpino
Roma 1944: pagine di un diario ritrovato di Giorgio Bassani
La luna è nostra di Giuseppe Berto
Il cappuccio da sci celeste-cielo di Italo Calvino
Le passeggiate di Carlo Cassola
Il traditore di Oreste Del Buono
Con filosofia di Alberto Moravia
Parliamo del più e del meno di Goffredo Parise
L'ultima farsa di Domenico Rea
La guardia di Lalla Romano
Il Natale di Iride di Mario Soldati
Vacanza di un capitano di Mario Tobino
Inizierò a leggerlo da domani, niente può essere lasciato al caso se è stato il caso a restituire ad un approdo la valigia e il suo contenuto. E un libro non è mai per caso.

martedì 25 febbraio 2014

#07.writer

Dopo che ho slegato le fibbie, ho avuto qualche difficoltà ad aprire la valigia: la chiusura era con una combinazione a ghiera. Lo scrivo adesso, solo dopo aver trascritto qualche appunto da fogli vari. Ne ho provate diverse, non ho inteso forzare. Dopo circa un'ora si è sbloccata la chiusura di sinistra con un facile 2-1-0. Quella di destra mi ha dato qualche difficoltà: 0-1-2, no; 3-4-5, no; 5-4-3, no. Poi, quasi per caso, sono finito su un 3-6-3 ed è scattata la seconda molla. Ho aperto. C'è stata una leggera zaffata di umido, ma anche un'essenza che riempiva lo pneuma tra le cose legate assieme con cinture a fibbia, come se prima di essere chiusa qualcuno avesse sparso della colonia. Ho rinvenuto quasi subito fiorellini di lavanda e gelsomino, qualche chiodo di garofano e una stecca di cannella, dentro una pochette di lana. Ecco, appunto. Sui pochi indumenti un gilet grigio, consunto, un foulard violaceo e una piccola scatola di fazzoletti di seta, colore ambra. Li ho tolti e riposti con cura su un letto. Poi diversi taccuini, due diari, qualche libro, fogli sparsi, una cartella con diversi documenti, una busta colma di fotografie. A questo punto mi sono detto: bene, per adesso può bastare. Ho riposto tutto nella valigia, ho rimesso dentro il gilet, il foulard e la scatola di fazzoletti, ho chiuso la valigia e l'ho messa sotto il letto. Ho dimenticato fuori qualche foglio, appunti, cose che ho già riportato su queste pagine. Chi sono io, dopotutto, per restituire in vita qualcuno che potrebbe essere morto? Oppure, per recuperare tracce di qualcuno che ha voluto perdersi? O...

lunedì 24 febbraio 2014

#06.foglio

"Mi sono tirato fuori. Non è stato facile, l'ho fatto però. Ci si tira fuori quando non è troppo tardi, allora ho iniziato a far perdere le tracce, ad eliminare i contatti, a rendere rade le mie visite. Belgrado, Londra, Parigi, Roma sono lo stesso luogo per un apolide, invece di radicarmi ho scelto la navigazione: invece di fermarmi, levo l'ancora. Mi hanno ispirato i seimila versi del diwan di عبد الجبار بن أبي بكر بن محمد بن حمديس الأزدي الصقلي أبو محمد‎, conosciuto meglio come Ibn Hamdis. Siciliano errante, musulmano apolide, poeta religioso. Mi sono trovato in quella condizione dopo la morte di Tito: nessuna Jugoslavia, nessuna patria. Per questo ho scelto l'esilio volontario: in patria nessuna patria, in esilio l'idea di un nostos (pur menzognero). Nessuno mi scrive, non sanno dove sto, per questo io scrivo a me stesso: per ritrovarmi, e riconoscermi."

domenica 23 febbraio 2014

#05.mimì


memoria di signore silenzioso

è morto mimì. l'ho saputo ieri, me lo ha detto NP. ho da qualche parte una sua lettera, consegnatami brevi manu una ventina d'anni fa. allora mi disse, leggila dopo. la lessi dopo, raccontava una storia che riguardava il nonno, suo nonno. la tengo ancora con me, anzi, l'ho riposta in valigia per non perderla. mimì ti invitava in casa, ti metteva a tuo agio e poi stava in silenzio. non perché avesse poco da dire (non usava, a dir la verità, molte parole) ma per via di un'indole riservata. la sua grande casa era poggiata sulla sabbia, aveva dinanzi un mare epico. viveva con la sorella, morta la quale il suo silenzio diventò una forma di discorso indiretto con i luoghi e le cose. ha avuto un malore, mi è stato detto, il cuore, è entrato in terapia intensiva e lì si sono accorti che dei polmoni era rimasta solo qualche traccia. mimì fumava quanto mai, vero. non si muore mai abbastanza di fumo, un male sociale. mimì. l'ho visto spesso dimesso, appartato, non assente, una specie di misantropo underground. aveva spesso un sorriso sornione, di chi ride dentro. la volta che l'ho visto ridere aveva le lacrime agli occhi, non riusciva a fermarsi, come fosse la volta decisiva. sono stato fortunato, forse, ad averlo visto così quel signore silenzioso: la mia memoria è labile, verte all'oblìo, per questo ne scrivo. non alto, pieno ma non grasso, deferente, ossequioso non in eccesso, spesso seduto, ecco, lo ricordo seduto, con lo sguardo sperso verso il suo mare, riflessivo senza la necessità di dover parlare, affettuoso, ecco, sì. ero in spiaggia, una volta, mi chiamò dalla veranda "priblic, venga qui un attimo", mi avvicinai, scomparve. attesi. tornò dopo qualche minuto "ecco l'orologio" disse "l'orologio di mio nonno".

#04.appunti

II

io, adesso, immagino
un architetto che realizzi
un auditorium tematico
in cui sia possibile
ascoltare
una sola opera musicale

le pareti e il soffitto
la disposizione dei posti
l'orchestra, la scena
disegno complessivo
materiali e vernici
all'unisono

ascoltare altre opere
sarebbe inutile
cacofonico e distorcente
disastroso e disarmante

ho pensato a Rachamninoff
un'opera imponente
poi a Ravel, l'enfasi ritmica
ma ho anche pensato che
una sonatina di Bach
lascerebbe esterrefatti

sabato 22 febbraio 2014

#03.citazioni

"Im Sommer bei bedecktem Himmel
  im Sommer bei sanftem Regen
  im Sommer in der Kühle alter Wohnungen
  zwischen dunkler Tapeten Gesichtsträchtigkeit:
  da liegen
  und auf die Stadtbahn lauschen..."

[Berliner Nachmittag, Günter Kunert 1963]

venerdì 21 febbraio 2014

#02.foglio

"Ora mi ritrovo qui, quasi perso in un'esistenza che non ho mai desiderato. Non ho punti di riferimento stabili: eppure vivo in luoghi, incontro volti, stringo mani, vesto una specie di precariato apolide. Troppe amicizie considerate utili, e invece sbagliate. Lungo il Douro ricordo una panchina di legno, un merletto di frasi, di nomi, di segni, che sembrava irrispettoso solo sedersi, eppure stava lì, in origine, per quel motivo, sedersi, e invece era diventata un diario, una mappa, un manifesto generazionale: gente che voleva dire, e ha detto. Un'altra panchina nel piccolo giardino dietro il Museo Nazionale di Stoccolma, intonsa. Non che non vi si fosse seduto nessuno, era un'altro modo di parlare, o di scrivere: per astensione, sospendendo nel vuoto attorno all'oggetto quelle cose che nessuno avrebbe potuto mai più riascoltare, ma lì. Il mio qui sta in mezzo a quei discorsi, tra tanto e niente. Ho distribuito la mia esistenza lungo direttrici che non saprei più distinguere, ho cercato cose che non sono riuscito a trovare, mi sono aggrappato a vite che ho perduto e adesso scrivo per delegare altri a recuperare il disegno sfilacciato del mio passaggio e riannodare fili, spargere altre tracce, disegnare puzzles, tracciare confini, piantare alberi."

#01.antefatto

L'estensore di questa trascrizione non è chi dovrebbe essere, pur essendolo. Si tratta, infatti, della trascrizione di fogli sparsi, bloc-notes, taccuini di viaggio, piccoli diari, taluni in sequenza cronologica, altri privi di connessione, ritrovati nel bagaglio del fu (ritengo) Gildo Priblic. La valigia con fibbie, acquisita dal signor Alvaro Martins da Silva (di cui tratterò in seguito) ad un'asta pubblica di merci depositate alla stazione doganale di Lisbona (come prevede l'art.638 del Regulamento das Alfandegas del diritto portoghese), è stata ceduta allo scrivente mediante acquisto da un noto sito di commercio on line. Al momento dell'acquisto il venditore, abituale acquirente di merci doganali, ha ritenuto irrilevante il valore delle cose contenute nel collo, in seguito messo all'asta on line con la seguente dicitura: "Valigia con fibbie, probabile proprietario Gildo Priblic, Belgrado..." seguiva lista del contenuto, tra cui indumenti, fotografie, documenti vari, su cui tornerò in seguito. L'asta si è chiusa a 73,50€ + spese di spedizione, 8 offerte provenienti da 8 località nel mondo (ho preso qualche appunto, farò una riflessione su questo, in seguito). Ho provato, ma non è facile disporre una tassonomia del contenuto. Per questo, non lo farò. Per due motivi: mi sono già imbattuto in Gildo Priblic, e ne scriverò in seguito, e, but not least, la casualità ingenera una certa serenità ermeneutica.